Suora-governante: finché è stato in grado di farlo si è sottoposto a penitenze corporali
CITTA’ DEL VATICANO
Il «flagellante» Karol Wojtyla. Tra le migliaia di pagine all’esame in Vaticano per proclamare beato Giovanni Paolo II, figura una straordinaria testimonianza di suor Tobiana Sobódka, la superiora delle suore polacche «Ancelle del Sacro Cuore di Gesù» che prestavano servizio nell’appartamento pontificio e accudivano il Papa.
La deposizione della religiosa rivela nella «positio» che Karol Wojtyla si sottoponeva a penitenze corporali e getta nuova luce sul rapporto stretto di natura mistica che legava Wojtyla alla fede. Lunedì scorso si è svolta la riunione dei cardinali e dei vescovi membri della Congregazione delle cause dei santi, chiamati a esaminare la causa di beatificazione. L’esito della riunione è stato positivo e i cardinali si sono unanimemente espressi in favore della proclamazione dell’eroicità delle virtù del Pontefice polacco.
«Molto spesso si sottoponeva a penitenze corporali. Lo sentivamo, a Castel Gandolfo avevo la camera piuttosto vicina alla sua. Si avvertiva il suono dei colpi quando si flagellava. Lo faceva quando era ancora in grado di muoversi da solo», svela la religiosa polacca nella ricostruzione contenuta nel libro «Santo subito» del vaticanista Andrea Tornielli. Dunque Giovanni Paolo II, che aveva perso tutta la famiglia prima di diventare sacerdote e aveva subito l’attentato del 1981, si infliggeva anche penitenze corporali, flagellandosi.
Le penitenze di Wojtyla sono confermate anche da un altro testimone privilegiato, il vescovo africano Emery Kabongo, per alcuni anni secondo segretario di Giovanni Paolo II. «Faceva penitenza - racconta - e la faceva in modo particolare prima delle ordinazioni episcopali o sacerdotali. Prima di trasmettere agli altri i sacramenti desiderava prepararsi. Non sono stato testimone diretto di penitenze corporali, ma mi è stato raccontato che vi si sottoponeva». Inoltre, continua il prelato, «quando Karol Wojtyla pregava non era distratto da nulla. Ricordo che quando presi servizio nell’appartamento papale, mi venne subito spiegato che quando il Santo Padre stava pregando, anche se si trattava di qualcosa di importante, bisognava aspettare per avvertirlo, perché per lui la preghiera veniva prima di tutto.
«Prima c’era Dio, poi tutto il resto, compresi i problemi del mondo». Insomma, sottolinea Kabongo nel libro di Tornielli, «quando Wojtyla pregava, pregava come qualcuno che sa davvero di che cosa si tratta. Si immergeva in Dio, dialogava con Dio». Un «Wojtyla privato» noto anche al suo fotografo personale, Arturo Mari dell’«Osservatore Romano». «Pregava in cappella, ma anche seduto sulla poltrona, nei cosiddetti momenti di riposo che per lui non sono mai stati tali - rievoca Mari-. Pregava quando moriva qualcuno: per un amico, una persona conosciuta, o le vittime di un attentato o di un incidente. Pregava quando veniva a sapere che da qualche parte la situazione politica era grave, quando scoppiava una guerra. Pregava quando aveva un problema, quando gli arrivava qualche brutta notizia su una situazione da risolvere. Andava in cappella e ci rimaneva fin quando non aveva risolto la questione».
Pregava molto anche nei Paesi che andava a visitare. «I suoi raccoglimenti li consideravo come momenti di preghiera per i problemi della gente del posto. Sembrava che si immedesimasse in loro, nelle loro sofferenze. Mi ricordo che a Vilnius è rimasto a pregare in ginocchio per sei ore, senza sosta», conclude Mari.
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