articolo apparso sul n. 6 di Modus Vivendi
I pericoli oggi sembrano scongiurati. Ma una ventina di anni fa alla centrale nucleare del Garigliano successe qualcosa. Mettendo a rischio un vasto territorio, dal Volturno al Circeo Non molti lo sanno. Ma è possibile che ci sia stata anche una Cernobyl italiana. Una ventina di anni fa, nell’area del Garigliano. «E se anche non volessimo usare i toni della catastrofe come precisa Mauro Cristaldi, docente di anatomia comparata all’Università La Sapienza di Roma, gli effetti nefasti registrati nell’area sono innegabili e sufficientemente documentati».
La situazione OGGI
Tutto questo richiama in prima battuta quel rilascio di radionuclidi registrabile ancora oggi nelle aree incriminate (soprattutto Cesio-137). Anche se il tutto avviene in una misura che tanto l’esercente Enel quanto l’Anpa giudicano insignificante. Soprattutto considerando che in merito si tende non solo a rispettare il livello consentito di dosi rilasciate, il che equivarrebbe a compiere una scelta minimalista del tipo "facciamo il minimo indispensabile" quanto ad utilizzare in definitiva la migliore tecnologia esistente, in nome di un unico obiettivo: ottimizzare. Posizioni queste, fortemente ribadite dal capo del Dipartimento rischionucleare dell’Anpa, Roberto Mezzanotti. Il quale oltretutto rileva «come nell’individuazione del parametro adottato per le dosi massime non si è sottovalutata la potenziale concomitanza di altre fonti di contaminazione cui gli individui possono essere esposti nell’area». Ma se questo sarebbe l’oggi, dove per Mezzanotti «il problema più attuale resta quello della gestione dei rifiuti radioattivi e della sicurezza dei lavoratori addetti» (con relativa problematica del raffreddamento delle scorie), rimane il grosso punto interrogativo di quello che può essere accaduto in passato e nel corso di tutti questi anni in aree come quella del Garigliano, considerati oltretutto i tempi lunghi legati alla contaminazione da nucleare. «Con il grave sospetto anzi, riprende Cristaldi, di un’attenzione sui controlli che negli ultimi anni sembrerebbe essere scemata. Mentre la gran parte dei rilevamenti, di pertinenza dell’ente gestore, l’Enel, non appaiono in grado di fornire gli elementi necessari per sapere con certezza quale sia l’attuale stato di salute della zona. Anche perché ci sarebbe ancora chi parte dal falso postulato che, una volta chiusa la centrale, il problema sia in gran parte risolto.»
La situazione negli anni ’80
Da qui il ritorno a bomba a ieri e alla "Cernobyl di casa nostra". Che è la Madre di tutti i timori di contaminazione. Nell’occhio del ciclone l’area posta tra il Volturno e il Garigliano e che si estende tra le province di Latina, quella di Caserta e l’Abruzzo. Si tratta di quello stesso entroterra che si apre sul mar Tirreno con il golfo di Gaeta ed il promontorio del Circeo. Mare frequentatissimo d’estate... E sul quale, anche su questo, si apre l’ennesimo giallo. L’ambientazione si pone nell’anno 1983. Fu infatti allora che una lettera firmata da un tecnico dell’Enea e da altri due colleghi fu fatta recapitare all’avvocato Tibaldi di Formia (per via inusuale), senza nessuno scritto di accompagnamento e del tutto anonima. Nella lettera, che avrebbe dovuto circolare solo all’interno delle strutture preposte, si faceva riferimento alla necessità di considerare con attenzione lo stato di salute di quei 1.700 km2 di mare compresi tra il Volturno ed il Circeo e nei quali si sarebbe nel frattempo registrato un preoccupante livello di contaminazione da Cesio-137 e Cobalto-60. Tale da riconsiderare i rischi di balneazione, di inquinamento dei fondali e la sospetta tossicità di prodotti ittici e mitili (questi ultimi sono dei forti riconcentratori di scorie) provenienti dall’area. Mentre si richiedeva altresì un veloce intervento con apposite campagne radioecologiche. Tenendo conto infine del particolare effetto delle correnti, tali da portare il particolato lungo la penisola di Gaeta. Tutto scongiurato? «Il rischio non è azzerato, precisa Cristaldi, ed espone in modo particolare il personale residente nell’area, i pescatori e chi si alimenta di pescato.» Comunque, della lettera che avrebbe dovuto spingere gli amministratori locali a ben altra vigilanza, non si sarebbe avuta notizia senza lo strano giro che la portò nelle mani di Tibaldi. Operazione a cui fecero seguito prima le querele e poi l’assoluzione in istruttoria dello stesso avvocato di Formia sancita dal pretore di Sessa Aurunca. Insomma nessun reato di diffamazione a suo carico.
Il "CASO GARIGLIANO"
Ma c’era stato davvero un "caso Garigliano" tale da consigliare misure più rigorose di controllo e di intervento e che invece in buona misura mancarono? Nonché tali da preoccupare ancora per l’oggi, ad oltre vent’anni di distanza? I numeri di allora, «mentre quelli di oggi sono caratterizzati da una totale mancanza sul piano epidemiologico da non potersi escludere una colpevole sottovalutazione del rischio permanente» dice ancora Cristaldi che ricorda ancora come il collega Mastroiacomo dell’Università Gemelli tempo fa gli abbia segnalato l’impossibilità di continuare il monitoraggio sull’area, visto il totale esaurimento dei fondi sono di per sé eloquenti. Come quelli ufficiali emersi da un’inchiesta del 1981 sulle malformazioni congenite registrate nei vitelli allevati nella zona contigua alla centrale. E che segnalano un sospetto intensificarsi di malformazioni genetiche a partire dagli anni 1964/65 (perfetta coincidenza con l’apertura della centrale), con casi di ermafroditismo e anchilosi. Fino ad arrivare, nella sola fascia S.Castrese-Sessa Aurunca, ad una preoccupante percentuale del 3%. Il tutto accompagnato per intanto dalla chiusura della centrale in seguito al verificarsi di una serie di incidenti. «Avvenimenti sui cui effetti 10 anni dopo non esistevano studi specifici», puntualizza Tibaldi. Né più rassicurante appare il dato relativo alle malformazioni genetiche registrate sui neonati (19,57 %. nel 1984) e raccolto e archiviato ufficialmente dalla Usl Latina-6 di Formia, con casi di bambini anencefali registrati all’Ospedale di Minturno o il ciclopismo del I semestre ‘84 presso l’Ospedale Civico di Gaeta. Scenario infine reso ancora più cupo dai dati Istat del settennio ‘72-’78 sulla mortalità per tumore e leucemia nella piana del Garigliano, spaventosamente attestato sul 44,48% (21,63 in tutta la provincia di Latina) contro una media italiana di poco superiore al 7%. Ora, è vero che nel dicembre del 1987 gli elementi di combustibile irraggiato sono stati completamente trasferiti dal Garigliano presso l’impianto di fabbricazioni nucleari "Avogadro" di Saluggia riducendo all’1% la quantità residua di radioattività presente nell’impianto, ma non per questo il rischio nell’area può dirsi del tutto debellato. «Intanto perché, precisa ancora Cristaldi, non è un indicatore sufficiente per la sicurezza dell’area la riduzione della radioattività presente sull’impianto e poi perché sono le radiazioni di media e bassa attività quelle maggiormente indicative ed attive.» Cosicché mentre Tibaldi continua a tutt’oggi a denunciare casi di malformazioni "certificate" nell’area e a ricevere frequenti segnalazioni di casi analoghi, Cristaldi continua con forza a mettere in guardia da quanto «non risulterebbe in modo evidente sul fronte cancero-genetico e avrebbe quindi spinto ad abbandonare la ricerca epidemiologica in loco. Perché, conclude, il dato è meno controllabile e più facilmente confondibile di quanto si creda. Ma non per questo deve spingere a restare inerti ». Enzo Cilento Istituto Superiore di Sanità.. Niente allarmismi :sui possibili rischi All’Istituto Superiore di Sanità sono contrari a qualsiasi forma di allarmismo. In primo luogo il dottor Eugenio Tabet, dirigente di ricerca dell’Istituto. «Non va dimenticato, esordisce infatti, che fin dall’atto di autorizzazione concessa alle nostre centrali, erano specificatamente previsti un programma ed una rete di sorveglianza ambientale sufficientemente rassicurante. Con controlli periodici e sistematici che, so per certo, vengono ancora compiuti. Come accade in Emilia, a Caorso, e in generale ovunque, almeno in Europa Occidentale.» Da qui, secondo Tabet, la mancanza di rilevazioni e dati epidemiologici "scientifici" nelle aree specifiche «anche perché, aggiunge, a meno che non si verifichino incidenti, le centrali non liberano che quantità di radioattività ridotte ed a così modesto raggio da non dover preoccupare più di tanto. Considerando oltretutto che dovunque e comunque le dosi di radiazioni cui sono esposti gli esseri umani non sono mai uguali a zero». A chi del resto gli oppone cifre preoccupanti sull’insorgenza di patologie leucemiche e tumorali nelle aree nuclearizzate, Tabet risponde con un invito alla prudenza e con il fatto che «i casi di tumore ad oggi sono ovunque numerosi, purtroppo, e in crescita. Il che può facilmente mascherare e nascondere qualsiasi connessione causale tra presenza del sito nuclearizzato e crescita dei fenomeni patologici». Del resto anche l’Istituto superiore di sanità il suo appello lo ha lanciato. «Siamo stati tra i primi infatti ad aver sollevato il problema della "decommisioning". Noi e i radioprotezionisti. E anche se siamo contrari a qualsiasi clima apocalittico, chiediamo da tempo che si intervenga in merito. Il che, come suggeriscono anche le ultime mosse del ministro Bersani, mi sembra che stia avvenendo. Certo, suggerirei di intervenire con tempestività cercando intanto di tamponare la situazione. Magari prendendo in considerazione l’opportunità di utilizzare i siti nucleari già esistenti, riqualificandoli in depositi secondo le tecniche più sicure attualmente a disposizione.» Garigliano: La testimonianza dell’avvocato Tibaldi.
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