In una recentissima pronuncia la Corte di Cassazione ha sicuramente compiuto un passo in avanti nel difficile cammino di conciliazione lavoro – famiglia, statuendo in materia di congedi parentali (Cass. Civ. sez. lav., sent. 29.9.2011, n. 19912). Secondo la Suprema Corte ex lege le lavoratrici non possono essere licenziate dall’inizio del periodo di gravidanza fino al terzo mese dopo il parto, nonché fino al compimento di un anno di età del bambino (ex art. 54, comma I, D.lgs. 151 del 2001). Il suddetto divieto di licenziamento, però, non si applica nel caso di colpa grave da parte della lavoratrice, costituente giusta causa per la risoluzione del rapporto di lavoro.
La Corte di Legittimità afferma che, per suo consolidato orientamento, la colpa grave non può ritenersi integrata dall’accertata sussistenza di una giusta causa oppure di un giustificato motivo soggettivo di licenziamento. Per la Corte “è invece necessario verificare se sussista quella colpa specificamente prevista – connotata, appunto, dalla gravità – e, proprio per questo, diversa dalla colpa (in senso lato) che deve connotare qualsiasi inadempimento del lavoratore, per essere sanzionato con il licenziamento”.
Con sent. n. 19912/2011 i giudici cassazionisti affermano, inoltre, che nel caso concreto l’accertamento della prospettata colpa grave si risolve in un accertamento di fatto riservato al giudice di merito. La Corte conferma quanto deciso dalla corte d’Appello che aveva ritenuto non configurabile la colpa grave della lavoratrice poiché la ragione del licenziamento risiedeva nell’assenza ingiustificata della lavoratrice, non rientrata al lavoro al termine del periodo di astensione obbligatoria per maternità.
È interessante incrociare questa pronuncia con qualche dato statistico che meglio serve a inquadrare il problema del lavoro femminile, proprio nel momento in cui viene varata la legge sulle cd. Quote rosa, e che mostra dati anche sorprendenti e contrari al comune sentire (si veda per esempio il problema del part time).
Secondo i dati forniti dalla Provincia di Milano, nel mese di giugno 2010, le madri che nel primo anno di vita dei figli si dimettono “volontariamente” sono una su cinque. Che ciò avvenga nell’operosa e istruita Lombardia è alquanto significativo. Ma quella delle dimissioni è davvero una scelta volontaria, oppure, si tratta di una “volontà che libera non è affatto” come ha osservato qualcuno?
I dati statistici provano che le donne dimissionarie escono dal mercato del lavoro perché ritengono insostenibili i carichi di lavoro. Il 36% delle donne intervistate dall’Istat nel 2008 denuncia problemi di conciliazione lavoro – famiglia, tutte le altre motivazioni sono secondarie. L’aspetto più critico riguarda l’orario di lavoro, la sua rigidità, ma anche il lavoro a turni, durante i fine settimana, pomeridiano e serale. Uno dei dati più interessanti riguarda il part–time: considerato positivamente e visto come possibile soluzione al problema di conciliare casa e lavoro, in realtà produce abbandono del lavoro. Infatti le neo-madri dimissionarie sono al 70% lavoratrici occupate part-time e quindi coloro che avrebbero dovuto avere minor problemi a gestire la mutata condizione familiare. Il dato è probabilmente sintomo di una condizione più precaria, di minore attaccamento al lavoro, di un reddito troppo basso.
Sicuramente sulle dimissioni delle lavoratrici incidono diversi fattori, come ad esempio, il fatto di risiedere al Nord o nel Mezzogiorno (le prime più avvantaggiate anche perché il tasso di occupazione generale è maggiore) e il livello di istruzione (le donne laureate si dimettono in numero assolutamente inferiore rispetto alle lavoratrici che hanno frequentato la scuola dell’obbligo). Inoltre incide il reddito personale e del coniuge: si dimettono in numero maggiore le donne che hanno un reddito medio – basso e che possono godere del reddito decisamente superiore del marito. Infine, incide notevolmente il settore economico, pubblico o privato, nel quale la lavoratrice è impiegata: dal settore pubblico non ci si dimette.
Le donne dimissionarie entrano a far parte del grande gruppo di donne inattive (7 milioni e 565mila nel 2008), nonostante il fatto che il 93 per cento delle donne dimissionarie dichiari di uscire dal mercato del lavoro solotransitoriamente, con l’intento ottimistico di riavere presto un secondo reddito in famiglia oppure di ricevere stima a livello sociale. Solo il 20 per cento di queste donne, però, riprende effettivamente il lavoro (che il più delle volte è un lavoro che ha già). Soprattutto nella fase di formazione della famiglia (entro i 44 anni), la principale motivazione all’inattività è la necessità di accudire i figli (33,5%); seguono il poco interesse per il lavoro (16,5%), l’assistenza ad altri familiari (10,2%), l’assenza di necessità economica (8,5%).
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